Ritorna la rubrica Stories con il racconto di Simone: frutto di una delle prime adozioni italiane dall’Africa, la Costa D’Avorio per la precisione, alla fine degli anni ‘70.

Mi chiamo Ambroise Simone Colombo , sono nato in Costa D’Avorio nel settembre del 1978, a seguito di una pratica di “verifica della fertilità” molto comune all’epoca, che consisteva nel far “accoppiare” le donne con alcuni uomini della comunità e, se rimanevano incinta, dovevano interrompere la gravidanza per poi unirsi in matrimonio e creare una famiglia in modo legittimo. Mia madre, andando contro alla volontà degli anziani del paese, decise di darmi alla luce, ma poi non sopportando l’umiliazione e l’allontanamento dalla tribù, smise di nutrirmi. Fui letteralmente strappato alla morte da una suora italiana e successivamente adottato dalla mia attuale famiglia  che mi ha accolto come un dono, senza avere alcuna informazione sul mio conto (sesso, origini, età…) per di più, fu costretta a stipulare un patto con il leader della mia tribù che acconsentì all’adozione (da parte di una famiglia ‘bianca’) solo con la promessa che la mia vita fosse stata documentata fotograficamente fino a diciotto anni.

Sono cresciuto in provincia di Varese, in una famiglia profondamente religiosa, con un fratello e una sorella, anche loro adottati. Eravamo gli unici neri in città, in una zona molto ostile nei confronti di etnie e culture straniere. Fin da piccolo ho dovuto fare i conti con sguardi diffidenti e battute infelici per il colore della mia pelle. Ricordo che alle elementari ero arrivato a stare male fisicamente per la paura di andare a scuola e dover affrontare il bullismo dei compagni di classe; fu sconvolgente la risposta della mia maestra quando venne interpellata da mia madre in merito a maltrattamenti subiti:

<< Suo figlio è nero, è normale, si deve abituare>>. Ovviamente mia madre gliene disse quattro!

A  11 anni ho deciso di entrare  in seminario, dove sono rimasto fino alla maggiore età, una scelta che ha inciso parecchio a plasmare l’uomo che sono oggi. L’aver vissuto quasi in una bolla, solo con ragazzi e persone dell’ambiente ecclesiastico per tutti quegli anni, ha reso piuttosto traumatico il ritorno alla “realtà”. La corsa ad ostacoli iniziò con l’approccio all’universo femminile, che mi era totalmente sconosciuto. Nonostante fossi ingenuo e “inesperto”, piacevo molto alle ragazze, ma le frequentazioni si scontravano sempre con il ‘no’ dei loro genitori per via delle mie origini, che le figlie invece tanto apprezzavano, così terminavano bruscamente.

Proprio non capivo perché il mio essere nero, e soprattutto africano, fosse così rilevante, anzi rappresentasse un problema. In quel momento, ho realizzato che avrei dovuto sudare più dei miei amici anche in questo .

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Grazie a Dio, ho avuto dei genitori fantastici che mi hanno insegnato a volermi bene, ad essere fiero delle mie origini e del mio aspetto e a guadare al cuore delle persone. Mi vengono in mente le volte in cui sono stato beccato davanti allo specchio mentre cercavo di cambiare il mio look per assomigliare agli altri ragazzi; come quella volta in cui ho tentato di farmi i capelli a spazzola, ma ho fallito miseramente facendo un macello sia in testa che in bagno! Mia madre mi rimproverò, insistendo affinché apprezzassi i miei ricci naturali, dicendomi che ero perfetto così come Dio mi aveva creato. Pensare che invece ora sono tutti affascinati dai miei capelli … Mi è stato insegnato a vivere con umiltà, gratitudine e con il sorriso stampato sulle labbra; ad ignorare le cattiverie della gente ed evitare a tutti i costi la violenza perché c’è sempre una soluzione migliore! Ora che sono padre, spero di essere in grado di trasmettere gli stessi valori a mia figlia.

Non sono più tornato in Africa, ma ho cercato di documentarmi e di apprendere il più possibile sulla storia e sulla cultura del mio paese d’origine, dove spero di poter andare  insieme a mia figlia, non appena la situazione socio-politica si sarà stabilizzata; vorrei che crescesse con la consapevolezza di essere anche ivoriana.

A distanza di quasi quarant’anni, le persone di origine straniera in Italia, dai quattro gatti che eravamo sono diventate milioni, ma a volte pare non siano stati fatti considerevoli passi avanti in termini di tolleranza e di rispetto reciproco. Ritengo sia dovuto ad un’ignoranza generale sulle culture extraeuropee. Penso che se ci fossero più iniziative rivolte all’esplorazione e alla conoscenza di realtà lontane da quella italiana, in altri campi oltre a quello eno-gastronomico, e alla condivisione reciproca di usanze e tradizioni, ci sarebbe meno ostilità verso chi è diverso. Allo stesso tempo, chi si trasferisce qui, dovrebbe essere disposto ad apprendere ed abbracciare la lingua e le tradizioni italiane.

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