In una freddissima mattinata romana di gennaio ho avuto il piacere di incontrare Igiaba Scego in una cornice a me cara: quella del Pigneto. La prima volta che ho sentito parlare di lei fu nel 2015 quando uscì Adua. Il primo pensiero che mi venne in mente allora fu confortante, forse l’Italia era pronta per sentire delle voci che raccontassero delle storie diverse. Poi con il passare degli anni, se da una parte ero stanca per la deriva che il nostro paese stava prendendo, gli articoli di Igiaba e il suo successo mi rassicuravano e in un certo senso mi incoraggiavano a pensare che ancora fosse possibile un’alternativa femminile e afrodiscendente e che dunque si potessero combattere, attraverso la parola scritta, i pericoli connessi ad una “storia unica” come direbbe Adiche.
Così, appena arrivate, io e Igiaba ci sorridiamo, lei mi racconta un po’ di sé, con quel suo modo un po’ sognante di esprimersi. Sin da subito però percepisco la sua urgenza di parlare del suo nuovo romanzo: La Linea del Colore edito da Bompiani e in uscita il 12 febbraio. Il libro – ambientato tra l’Italia, gli Stati Uniti e la Somalia in differenti epoche storiche – tratta in modo efficace temi quali: il colonialismo, la violenza, la condizione delle donne e quella dei migranti, costringendoci necessariamente ad attuare una riflessione sul nostro passato colpevolmente rimosso e sulle mancanze del nostro presente.
Dalla nostra chiacchierata, durata quasi due ore, ne è uscita questa stimolante conversazione.
Di che cosa parla il tuo libro, La Linea del colore edito da Bompiani?
Il libro si chiama La Linea del Colore ma ha un sottotitolo ossia: Il Grand Tour di Lafanu Brown ed è la storia di due donne che vivono in due epoche storiche differenti. Una è per l’appunto Lafanu – una donna di origine Chippewa e afroamericana – che ad un certo punto decide di abbracciare l’arte e di diventare una pittrice e fare un viaggio dagli Stati Uniti all’Italia. L’altra protagonista è Leila, una curatrice d’arte che studia Lafanu Brown e che è interessata a fare una mostra d’arte sulle sue opere.
La storia di Lafanu è davvero affascinante, da chi ha preso l’ispirazione per dar vita al suo personaggio?
Per scrivere la storia di Lafanu mi sono ispirata a due donne afroamericane realmente esistite: Edmonia Lewis, una scultrice le cui spoglie sono al cimitero acattolico di Roma e Sarah Parker Remond, un’attivista abolizionista che in Italia ha studiato per diventare ostetrica. Entrambe hanno vissuto nella capitale intorno al 1865.
Qual è il fil rouge che lega le storie di Edmonia e Sarah a Lafanu, oltre al loro passaggio nel nostro paese?
In tutte le tre storie ci sono elementi legati alle discriminazioni razziali. Nonostante queste donne facessero parte dei così detti “neri liberi”, una sorta di aristocrazia (tra molte virgolette), in realtà subivano allo stesso modo tantissime angherie. Ed è interessante notare che gli episodi di violenza facevano e fanno parte ancora della biografia di quasi tutti gli uomini e le donne nere. In fondo parliamo di quella che Ta-Nehisi Coats definisce come “paura di perdere il corpo.”
Io ovviamente ho calcato molto la mano su questi aspetti e il mio racconto parte per l’appunto da una violenza che Lafanu ha subito e di cui non si ricorda neanche bene. Io ho dunque creato un romanzo su una donna che attraversa questo dolore incredibile che però trova la forza di ricostruirsi attraverso l’arte e il viaggio.
Il viaggio mi sembra, non a caso, un altro tema forte del libro
Noi viviamo una situazione per cui il viaggio di migranti è stigmatizzato, dove se sei del Sud del mondo devi superare molti ostacoli e forse arrivi in Europa. Invece, ci sono altre persone, me compresa, che solo perché abbiamo un passaporto “forte” non ci è richiesto nulla per muoverci, dobbiamo solo comprare un biglietto! Per me questa è una condizione di apartheid e anche per questo ho voluto creare un libro sul viaggio.
Mi piace molto anche che hai deciso di parlare di arte fatta da neri, un tema inusuale ancor oggi…
Si, poi ho deciso di ambientarlo in un periodo storico dove i neri che facevano arte erano veramente pochi. In fondo c’era in me un certo gusto nel mostrare questa storia ottocentesca. L’Ottocento spesso noi l’immaginiamo solo bianco ma in realtà ci sono un sacco di persone nere che hanno fatto cose interessanti e di cui troppo spesso ci si dimentica. Inoltre, mi piace che per una volta si parli anche di un’Italia non raccontata dagli italiani ma vista da fuori, da qualcuno che non è Italiano e che ha una proiezione fantastica verso il nostro paese. Un immaginario tutto costruito sulle narrazioni dei grand tour e su libri anche un po’ razzisti come Corinna o l’Italia (1807 ndr) di Madame de Staël. Per la mia protagonista Lafanu, inoltre, l’Italia aveva una valenza salvifica, in quanto significava anche fuga dalla violenza ma ben presto questa immagine incomincia ad incrinarsi con l’avvento colonialismo.
Il libro si apre, infatti, con la sconfitta degli italiani a Dogali…
Tutti pensano ad Adua come la prima sconfitta degli italiani, in realtà prima c’è Dogali (1887 ndr) e il libro si apre proprio a seguito di questa battaglia, dove morirono molti italiani. Ma i morti erano anche gli invasori! Così Lafanu, dopo che i giornali pubblicano le notizie provenienti dall’Etiopia, viene aggredita e delle donne le urlano «noi chi sposeremo adesso? Cosa faremo adesso?». Questa però viene salvata da un giovane che dice: «non capite branco di cretini che i patrioti sono gli abissini?». Nella realtà questa è una frase che disse l’anarchico Ulisse Barbieri. Io con questo libro ho voluto far riemergere il passato della Roma coloniale, per ricordare che il colonialismo è qualcosa che ha accompagnato la nostra nazione, ben prima del fascismo, forgiando una certa mentalità razziale.
Mi ha molto colpito però che il primo shock di Lafanu con il razzismo in Italia avvenga a Livorno:
Si, davanti al Monumento dei Quattro Mori che rappresenta degli schiavi neri incatenati al Gran Duca di Toscana Ferdinando I. Allora Lafanu appena vede questa statua inizia a disegnarla su dei taccuini chiamati “La rotta degli schiavi”. Ma in Italia ci sono ancora parecchie statue così forti, io nel libro, ad esempio, cito anche quella di Marino ai Castelli di Roma con i quattro mori incatenati: due donne e due uomini. È una rappresentazione forte perché si vede la violenza in azione.
Nel libro ricorre spesso la parola: “n***o”, come mai questa scelta forte?
Ho deciso di fare un po’ come i rapper americani, la metto in bocca ai miei personaggi quasi per disinnescarne il significato! Ma spesso la uso anche perché era coerente con l’epoca storica.
Tra le protagoniste della storia ci sono anche delle donne bianche…
Sì, perché a me interessava molto trattare la condizione femminile in generale. Ad esempio c’è il personaggio di Betsabea Mckenzie che aiuta Lafanu ma che è chiaramente affetta dal white savior complex e quello dell’istitutrice che grazie al suo incontro con la pittrice americana per la prima volta interagisce con un’altra donna nera, riuscendo a superare anche alcuni dei suoi pregiudizi. Ma nel libro parlo anche di dinamiche di classe e di come le donne vogliono emergere da una condizione di oppressione. In un certo senso ho scritto un libro femminista!
Come si inserisce questo romanzo rispetto alle tue precedenti opere?
Come ho scritto nel making of del libro, la mia intenzione era realizzare una trilogia dedicata alla violenza coloniale e La Linea del colore è l’ultimo capitolo. A me interessa capire cosa succede ai corpi neri quando vengono attraversati dalla violenza e nei tre libri spesso la violenza sessuale è uno specchio della violenza coloniale o schiavista. Poi La linea del colore incomincia proprio dove finisce Adua, ossia a Piazza dei Cinquecento a Termini, chiamata così proprio in onore dei soldati caduti a Dogali.
Come ti sei preparata per scrivere questo libro ed essere il più fedele possibile alla realtà?
Ho dovuto innanzitutto studiare com’era Roma nell’Ottocento, ho fatto dei sopralluoghi, soprattutto nei posti dove Edmonia Lewis ha abitato. È bene ricordare però che da quando Roma è diventata capitale, questa ha subito numerosi cambiamenti a livello urbanistico. Inoltre, c’erano dei monumenti all’epoca che oggi non ci sono più.
Il percorso di Lafanu a Roma ci mostra anche i cambiamenti della città. Non a caso, uno dei personaggi nel prologo dice: «dov’è la nostra Roma?». E racconto molto il rapporto degli “stranieri” della città e l’idea dell’Italia come colonia o cartolina, della serie: bella l’Italia ma che schifo gli italiani! Il mio obiettivo era anche far ricordare agli italiani il razzismo che hanno subito in quegli anni.
Qual è, invece, il tuo rapporto con Roma?
Roma è una città che ho raccontato molto, è la mia città. Narrarla è anche una sorta di ricerca personale, io sono nata nella capitale ma come ci è finita qui la mia famiglia? Questa città è per me una sorta di ossessione. Il problema della città è che questa spesso viene narrata in modo parziale, nessuno dice, ad esempio, che il grande Impero Romano era multietnico! Roma parla della sua storia ma spesso non la si ascolta. Questo è un territorio ricco di storie ancora nascoste.
Non pensi che ci sia bisogno di un maggiore spazio nei piani scolastici anche di voci diverse? Ad esempio alcuni tuoi libri potrebbero benissimo essere delle letture adatte nelle scuole, sempre più multietniche…
Secondo me è assurdo il modo in cui al giorno d’oggi si insegna la storia o la letteratura! C’è spesso ancora una visione eurocentrica dove “gli altri” non entrano. Non si leggono autori africani, afroamericani o sudamericani. L’Italia poi viene vista come un paese isolato ma non è così, come dimostro in questo libro c’erano proprio dei flussi intorno all’Italia e forse quelle statue dei Quattro Mori ci raccontano anche un nostro passato di schiavitù. Perché non studiamo queste cose? Perché non studiamo il colonialismo? Io non le ho studiate quando ero sui banchi di scuola ma sinceramente mi viene un po’ lo sconforto quando mi rendo conto che neanche i ragazzi di oggi lo fanno. La storia deve essere necessariamente vista da più prospettive.