Se dovessimo fare una fotografia della cerimonia d’insediamento di Joe Biden, avvenuta a gennaio di quest’anno, probabilmente al centro troveremmo la giovane poetessa californiana Amanda Gorman. Lei, con il suo cappottino giallo di Prada e i capelli perfettamente intrecciati, adornati da un cerchietto rosso indossato come se fosse una tiara, che declamava, scandendo accuratamente ogni parola, il suo poem The Hill We Climb, è l’immagine più vivida di quella giornata. Solo Maya Angelou aveva avuto lo stesso compito. 

Più del discorso del presidente o della sua vice Kamala Harris, le parole semplici ma d’effetto di Gorman, così musicali e declamate nel ritmo tipico dello spoken word, sono riuscite a rendere più caldo un evento che, per via delle circostanze contingenti, sembrava incapace di entusiasmare davvero lo spettatore. 

Eppure l’alba è nostra, prima che ce ne accorgiamo.
In qualche modo riusciamo.
In qualche modo siamo riemersi, testimoni
Di una nazione che non è infranta, solo
Incompiuta.

Amanda Gorman, nata nel 1998, è un volto emergente nel panorama letterario statunitense e non solo. Nel 2015 ha pubblicato il suo primo libro di poesie, dal titolo The One for Whom Food Is Not Enough e nel 2020 ha firmato un contratto con l’agenzia di moda IMG Models.

Oltre ad essere un’attivista da sempre impegnata per le cause legate al razzismo e al femminismo, è vincitrice del titolo di National Youth Poet Laureate e lo scorso anno si è laureata con lode in sociologia ad Harvard. Tra i suoi sostenitori Amanda può annoverare grandi nomi dell’industria culturale statunitense: Oprah Winfrey, Barack e Michelle Obama e Lin Manuel Miranda. Particolarmente significative sono le parole dell’autore di Hamilton, opera a cui fa più volte riferimento Gorman nel suo celebre poem, che di lei, sulle pagine del Times, ha detto: «[Amanda] ha incarnato una lucida speranza a una nazione stanca. Ci ha rivelato a noi stessi.»

«I’ve learned that it’s okay to be afraid. And what’s more, it’s okay to seek greatness. That does not make me a black hole seeking attention. It makes me a supernova.»Amanda Gorma, Vogue Aprile 2021

A seguito della grande visibilità avuta dalla poetessa, arrivata addirittura sulla copertina di Vogue America, la casa editrice Penguin Young Readers si è affrettata a far uscire un libricino contenente esclusivamente The Hill we climb. Tale mossa – che onestamente si può leggere in termini quasi esclusivamente commerciali – anticipa l’uscita in estate di un testo più corposo, una sorta di antipasto che precede la portata principale: una raccolta di scritti inediti. 

Un po’ come si era evidenziato con l’uscita di Becoming, l’autobiografia di Michelle Obama, è interessante notare che il testo, sebbene proprio della cultura americana, sembra essere utilizzato come cassa di risonanza delle istanze di tutti gli afrodiscendenti, fuori e dentro gli Stati Uniti. Però, attuando tali grossolane generalizzazioni, ancora una volta, si rischia concretamente di appiattire l’esperienza dei neri che vivono al di fuori dell’America, semplificandone colpevolmente l’identità e caricando al tempo stesso di dare un valore universalistico ad un’opera che al contrario andrebbe necessariamente ancorata all’hic et nunc in cui è stata concepita. 

Se da noi la condizione degli afroamericani sembra più intrigante rispetto a quella degli afroitaliani, il rischio che si corre nel non contestualizzare correttamente un testo come quello di Gorman, così come il movimento Black Lives Matter, è quello di renderci paradossalmente più insensibili al razzismo della nostra società, circoscrivendo il problema ad una “realtà altra”.

Noi, successori di un paese e di un tempo
In cui un’esile ragazzina nera, discendente di schiavi, cresciuti da una
madre sola
Può sonare di diventare presidente,
E ritrovarsi a declamare per chi lo è diventato. 

l dibattito degli ultimi mesi che ha investito il libro, edito in Italia da Garzanti e adattato da Francesca Spinelli, ha aperto una questione, soprattutto in Europa, in merito a chi dovrebbe tradurre cosa, o più specificatamente e in termini più riduzionistici, la domanda che molti si sono posti è: può un autore bianco tradurre un autore nero? 

La controversia è nata quando, nei Paesi Bassi, l’editore Meulenhoff ha affidato la traduzione di The Hill We Climb a Marieke Lucas Rijneveld, giovane romanzier* di genere non-binario. Tale scelta si può far ricondurre non tanto all’esperienza dell’autor* – che per sua stessa ammissione non aveva grande dimestichezza con la lingua inglese – quanto piuttosto, come nota giustamente Claudia Durastanti su Internazionale, la decisione della casa editrice rispondeva ad un criterio di popolarità – essendo stato recentemente assegnato a Rijneveld il Man booker prize international – e in base ad una supposta vicinanza con Gorman, per età e funzione sociale, in quanto appartenente a sua volta ad una minoranza. 

Dopo le critiche della giornalista Janice Deul, che ha sottolineato come proprio nei Paesi Bassi ci sia una fervente comunità nera che utilizza proprio lo spoken word come mezzo di espressione e che dunque sarebbe stato più appropriato, soprattutto in termini di competenze e maturità, affidare ad un autore o autrice proveniente da queste realtà la traduzione. 

Come precisa sempre Durastanti: «Non è uno scandalo: la scelta dell’editore è stata molto cinica e un po’ miope, e il suo cambiare idea dopo le polemiche lo è stato altrettanto, perché risponde a operazioni di ingegneria per cui i lettori sono in realtà gruppi di consenso.» https://twitter.com/MLRijneveld/status/1365293135996325895?s=20

Andando oltre la polemica sulla traduzione, che da noi si è livellata su espressioni quali cancel culture e dittatura del politicamente corretto, pochi hanno utilizzato l’occasione offerta dal testo di Gorman per fare una riflessione di più ampio respiro che abbia come obiettivo finale quello di rendere più inclusivo il settore editoriale, abbattendo in modo definitivo il glass ceiling che permane in questo e molti altri ambiti. Ancora una volta si guarda il dito che indica la luna dimenticando – volontariamente o meno – che il cuore del problema è la scarsa visibilità di alcuni gruppi marginalizzati. 

La domanda dovrebbe essere: esistono traduttori ed autori appartenenti a delle minoranze? Come sottolinea la traduttrice Martina Testa su Dinamopress: «Certo che c’è un problema di disuguaglianza radicale, che però va affrontata innanzitutto su altri piani, quello economico, quello dei diritti. E poi certo, c’è anche il piano della rappresentanza e della visibilità. […] E su quel piano certo che l’editoria può e deve lavorare; e non semplicemente in termini di numero di autori di colore pubblicati, ma anche nel modo in cui li pubblica.»

The Hill We Climb può in questo senso essere un’ottima cartina tornasole, non tanto per i suoi contenuti comunque molto apprezzabili, quanto per il dibattito che è riuscito a scatenare. Nell’attesa che avvenga la consacrazione definitiva di Gorman, su cui ci sentiamo di dire che c’è una certa pressione al momento viste le aspettative, vogliamo sperare che il suo lavoro abbia quantomeno scatenato nel pubblico un interesse ad ascoltare voci alternative. 

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