La storia del giovane Prince Jerry, 25enne nigeriano laureato in chimica che fu travolto e ucciso da un treno il 28 gennaio scorso a Tortona, è figlia di un clima attuale oramai surreale che si maschera come evento sociale a cui dare il relativo peso durante la giornata. È un ingranaggio gettato nel mare di discussioni su temi sociali che hanno permesso alle grandi testate, a uomini prestati alla politica, a pseudo opinionisti, di avere quei 15 minuti di popolarità tanto amati da Warhol.

Tanto si è detto e tanto se ne è parlato del giovane nigeriano, strumentalizzato come tipico esempio da portare per una discussione politica ai limiti di una vendita di un prodotto. Eppure non tutti, forse poche realtà giornalistiche, si sono fermati a indagare sul reale accaduto nelle ultime settimane. Perché sì, il parlare ‘giusto per’, lo scrivere ‘giusto per’, mette sicurezza e conferma il nostro posto nel mondo, la voglia sempre più forte di far parte di un gruppo e di non sentirsi solo. Ma alla fine ci si sente ugualmente soli, frustrati, abbandonati come un giovane ragazzo laureato in chimica, privo di speranza nei suoi ultimi mesi di vita.

Il valore della persona prima di tutto.

Oggi non discuteremo del grande potere delle fake news, non sarebbe il luogo adatto. Evidenziamo due aspetti su cui riflettere: il valore della propria persona e della propria identità.
Tranquillizzatevi, non sono una psicologa, né una sociologa ma una ragazza di 25 anni che si domanda quale sia il suo e il nostro posto nel mondo. Stiamo assistendo a una svolta epocale, un divario generazionale di pensiero dove a noi giovani viene detto quasi come una filastrocca che abbiamo doveri verso la nazione, che abbiamo delle responsabilità ma che in compenso, quasi come un paradosso, siamo privati del diritto di pensare al nostro futuro.

E il tanto conclamato decreto sicurezza ne è la conferma: tentare superficialmente di rassicurare la gente, ingigantendo problemi di integrazione e crescita giovanile non fa altro che arretrarci come società democratica e civile. Un invito, insomma, da parte di una politica del terrore verso tanti ragazzi e ragazze della nostra età costretti a fuggire dalla loro città, spesso dal loro paese natio per una prospettiva di vita migliore.

La sfiducia verso le istituzioni e verso gli adulti.

Una sceneggiatura degna di un film di Netflix: che si tratti di un giovane venuto su un barcone e scappato dalla guerra o di uno che compra un biglietto di sola andata verso qualche metropoli europea, tutto ciò fa sì che nel nostro animo di persone nate in un’era dove i confini territoriali sono più mentali che altro, nutriamo una sfiducia nei confronti del sistema sociale e di quella parte di adulti che si suppone debba formarci.

Noi millennials ogni giorno siamo costretti a insegnare ai nostri genitori cosa significhi convivere con altre culture, sentiamo l’obbligo di reagire davanti a gesti disperati di persone a cui vengono tappate le ali, frantumate ogni possibilità di potersi reinventare.

Investire sul proprio futuro, si può?

Eppure, chi spesso distrugge ciò che semina è miope su quelle realtà spesso difficili, affrontate da noi ma create da altri. E mi domando: per un genitore è confortevole vedere il proprio figlio, dopo un’intera vita spesa nello studio, migliaia di euro investiti nella formazione, ritrovarsi a scappare
dalla propria vita? Forse sì, in fondo siamo “gli eterni stagisti” da 600 euro mensili, armati di lauree e master di prestigio.
Nonostante ciò, scusami Prince, mi sento speranzosa, affezionata e orgogliosa di un paese come l’Italia che, con fatica, forse un giorno si risveglierà da questo lungo sonno.

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