Durante la quarantena sono molte le persone che, per necessità o questioni di circostanza, si sono imbarcate in nuove avventure professionali tentando di far fruttare al massimo le proprie competenze e passioni. Kany Fall rientra fra queste. Ha individuato una lacuna, ha fissato il suo target di interesse e ha elaborato un piano di azione, utilizzando i social media per educare e promuovere la sua attività.

Gender Wage Gap and How to Address It”. Perché se nasco donna ho più probabilità di avere un reddito annuo inferiore a un uomo?

Questo è il titolo del video che mi è apparso per caso, nelle stories, un pomeriggio di metà luglio. A realizzarlo è Kany Fall, venticinquenne italo-senegalese residente a Parigi, dove studia e si occupa di finanza e strategia aziendale. Entro sul suo profilo instagram e trovo una serie di immagini e di video sul mondo del lavoro. Fra tutti, ad attirare la mia attenzione è questo annuncio:

Sono rimasta piacevolmente sorpresa dal suo spirito di iniziativa perché, nel corso degli anni, io stessa ho guardato – e lo faccio tuttora – parecchi video su tematiche molto simili a quelle proposte da Kany, ma tutti realizzati da donne nere britanniche o statunitensi. Non potevo perciò lasciarmi sfuggire l’occasione di conoscere e presentarvi questa giovane promessa della finanza. Una donna determinata, ambiziosa e indubbiamente altruista.

Percorso di studi accademico ed esperienze lavorative.

Mi sono laureata in Economia e Commercio Estero in una business school parigina. Ora invece sono studentessa in un master di Finance and Strategy presso la Sciences Po Paris, che prevede una doppia laurea con la Bocconi di Milano. Scritto così, il mio percorso sembra piuttosto lineare, la realtà è che, soprattutto nei primi anni accademici, mi si sono chiuse diverse porte in faccia che mi hanno costretta a ripiegare sui miei piani B e C per compensare gli apparenti fallimenti e alle opportunità mancate.

Ora, a posteriori, sono molto grata di ogni tappa perché le università che ho frequentato mi hanno permesso di svolgere diverse esperienze professionali, tra cui vari stage e un apprendistato nella direzione finanziaria di una banca. Al momento lavoro come analista strategica in una start- up a Parigi.

Cosa ti ha spinto a scegliere la finanza e cosa hai imparato fino ad ora lavorando in un settore prevalentemente maschile e bianco?

Ciò che mi entusiasma è leggere il mondo attraverso il prisma finanziario. Mi aiuta a capire molte questioni che possono sembrare apparentemente sociologiche, politiche o culturali ma che, in realtà, hanno un’origine (e una soluzione) finanziaria. Per di più sono una persona di natura cartesiana e concreta, quindi traggo soddisfazione dal fatto che nella gestione del denaro sia tutto pragmatico, tangibile e misurabile.

Per quanto riguarda il settore finanziario e la sua demografia, ci sono molti passi in avanti da fare. Se fino ad ora ho avuto esperienze positive, è perché ho sempre fatto la scelta consapevole di interessarmi ad aziende internazionali, che fanno della parità e della diversity dei pilastri essenziali di CSR (Corporate Social Responsability). Devo ammettere però che sono un profilo troppo junior per poter emettere un giudizio definitivo, dato che le vere disparità solitamente si fanno notare nell’arco dell’evoluzione della carriera e nello scalare le gerarchie che, per varie ragioni, più si va in alto, più diventano omogenee (composte da uomini bianchi, ndr ).

Una delle lezioni più importanti apprese finora, è aver capito quanto sia fondamentale lavorare per e con like-minded people, quindi avere datori di lavori che condividano la mia stessa visione del mondo.

Ti sei trasferita a Parigi dopo la maturità e da quando vivi lì hai avuto modo di conoscere molti tuoi coetanei francesi neri. Quali aspetti ti hanno colpito maggiormente della realtà afro-parigina?

Ho realizzato che gli afroitaliani per certi aspetti hanno dei privilegi rispetto ai “cugini” francesi. Un esempio è a livello urbanistico. Le grandi città francesi hanno vaste periferie, le banlieues, ossia degli agglomerati costruiti in fretta e furia tra gli anni ’60 e ’70 per rispondere alla rapida crescita demografica. Sono territori architettonicamente poveri, per lo più abitati da immigrati e da famiglie di ceto medio-basso.

Oggi sono i luoghi in cui si concentrano disoccupazione giovanile, microcriminalità e servizi pubblici di qualità scadente, tra cui le scuole. Crescere nelle banlieues significa avere alte probabilità di subire un determinismo sociale che banalmente diminuisce le tue chances di intraprendere un percorso accademico, di avere accesso a buone università e di ambire a carriere professionali di un certo livello.

Alcuni francesi afrodiscendenti una volta mi hanno detto: <<Kany, tu sei fortunata. In quanto nera italiana sei esente dai pregiudizi che noi neri francesi della banlieue potremmo subire>>.

Sono problematiche socioeconomiche che abbiamo la fortuna di vedere meno in un’Italia prevalentemente provinciale, poco urbana e con una storia di immigrazione “giovane”. La diversità delle nostre storie prova che, come dice il detto, “l’erba del vicino non è sempre più verde”.

Nelle sessioni di coaching ribadisco spesso che la ricchezza della nostra identità è uno dei nostri migliori cavalli di battaglia.

Paradossalmente non è una cosa che ho realizzato da sola, ma con l’aiuto di una ragazza francese che conoscevo a malapena e che mi ha aiutata a preparare l’esame orale per il test d’ingresso della mia attuale università. Mi aveva fatto notare quanto poco parlassi delle mie origini quando mi presentavo ai colloqui accademici e di lavoro, nonostante fossero onnipresenti. Il Senegal nel mio nome e nel colore della mia pelle, mentre l’Italia nel mio accento.

Abbiamo così provato ad individuare delle soft skills che ho sviluppato grazie alla mia multiculturalità e – breaking news – sono tante! Dallo spirito d’adattamento, alla facilità di apprendimento delle lingue, all’empatia, al senso delle priorità. L’unicità della nostra storia è ciò che ci distingue da chiunque altro, anche in un ambiente di lavoro, per cui non si deve mai dimenticare di valorizzarla.

Durante la quarantena hai iniziato la tua attività di consulenza, scegliendo come target i figli di immigrati. Perché e quale è stata la risposta dei tuoi utenti?

La risposta dei social media è stata entusiasta e virale. E’ stata una sorpresa per me perché non sono né una consulente, né una coach certificata. Non prometto un servizio comparabile a quello di persone che lo fanno come mestiere, ragione per cui ho scelto di parlare solo di cose che conosco e ho vissuto: percorsi di carriera negli ambiti in cui ho lavorato, orientamento universitario, studiare/lavorare all’estero. Come target ho selezionato una fetta di popolazione con un’esperienza di vita simile alla mia, ovvero crescere figlia di immigrati in Italia.

Quali sono i servizi più richiesti e qual è o quali sono le caratteristiche più frequenti delle persone che si rivolgono a te?

Fino ad ora ho parlato con un centinaio di persone di cui 80% donne, dai 17 ai 35 anni, con background diversi. Un filo conduttore è quello degli studi universitari, che va da chi sta scegliendo cosa fare, a chi invece ha quasi finito gli studi e si chiede come meglio inserirsi nel mercato del lavoro.

Spesso nella sessione di coaching le persone vogliono semplicemente essere ascoltate e rassicurate e se, per esempio, vogliono consigli tecnici per il CV, ne parliamo in un secondo momento con calma tramite i dm di instagram. Ho avuto anche italiane che non erano figlie d’immigrati e che gentilmente in dm mi hanno chiesto permesso prima di iscriversi, per non occupare il posto riservato ad altri.

Diverse persone ti chiedono consigli in vista di un trasferimento all’estero, una richiesta che hai rivelato potrebbe rappresentare un po’ un campanello di allarme. Come mai?

La prima domanda che pongo sui progetti per l’estero è “perché?”. Distinguo poi due tipi di risposte: quelle dettate dalla paura e quelle dettate dalla speranza. Per esempio, quando le motivazioni sono “in Italia non c’è futuro, non c’è lavoro, le minoranze non ricoprono posti di lavoro importanti mentre invece in Gran Bretagna sì“, lì vedo un campanellino d’allarme, in quanto costruire progetti spinti dalla paura, spesso porta ad aspettative surreali.

La vita è sempre più difficile in un ambiente sconosciuto. Dare per scontato che realizzarsi all’estero sia più semplice, è ingenuo e, a tratti, pericoloso. Soprattutto in un’epoca in cui i paesi stanno diventando sempre più chiusi e l’emigrazione economica è paradossalmente più difficile rispetto all’epoca dei nostri genitori.

Grazie al cielo però, nella maggior parte delle sessioni di coaching, le persone hanno presentato dei piani maturi e propositivi. C’è chi vuole imparare perfettamente il tedesco, perciò ha senso che vada in Germania; oppure chi sogna di lavorare nell’industria cosmetica quindi vorrebbe trasferirsi in Francia, paese leader nel settore.

Realizzare programmi (all’estero) spinti dalla speranza, permette di avere basi solide e profonde che saranno essenziali per non scoraggiarsi quando la vita si farà difficile. 

Quali sono i libri che reputi siano stati fondamentali per il tuo percorso? Hai dei modelli di riferimento, anche sui social?

I libri che mi hanno segnata di più sono: Becoming di Michelle Obama, Lean In di Sheryl Sandberg e 7 Habits of Highly Effective People di Stephen Covey. Sono anche una consumatrice avida di Ted Talks, di cui consiglio tutti quelli di Chimamanda Ngozi Adiche e di podcast, tra i miei preferiti ci sono il Secrets of Wealthy Women del Wall Street Journal e Morgana di storielibere.

Una persona attiva sui social che stimo è sicuramente Patricia Bright.

Cosa ti sta dando maggior soddisfazione dall’attività di consulenza? Hai appreso qualcosa in più su te stessa e/o sugli italiani afrodiscendenti?

Sono rimasta sbigottita dalla fiducia che le persone ripongono nelle mie sessioni di coaching. Ho capito che il successo di questa attività non è dovuto alla mia bravura, o alla mia notorietà, ma al fatto che ce ne sia bisogno. Ho appreso che necessitiamo di parlare di più di percorsi professionali e di sviluppo personale, perché non tutti abbiamo un ambiente familiare e un capitale sociale che ne diano il giusto spazio. 

Mi soddisfa notare che siamo in tanti, immigrati di seconda generazione, ad essere ambiziosi e determinati. A volte potremmo soffrire la solitudine in quanto gli unici neri in aula, gli unici neri in azienda e con ancora nessuna testimonianza di qualcuno simile a noi che fa il lavoro dei nostri sogni, ma non per questo dobbiamo mettere in discussione le nostre aspirazioni. Anche perché probabilmente c’è qualcun altro nella nostra stessa situazione che vive in altre parti d’Italia. Non siamo mai soli. 

In futuro vorrei tornare a vivere in Italia.

Non ricordo la citazione esatta, ma avevo letto una affermazione di Antonio Dikele di Stefano simile a “l’Italia è un paese pieno di opportunità, c’è molto da fare”. Sono della stessa opinione. Viviamo in un mondo pieno di battaglie, di pilastri da demolire e ricostruire e credo di non poterlo fare meglio che nel paese in cui sono cresciuta e che ho chiamato casa per la maggior parte della mia vita.

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