I miei genitori mi hanno sempre trattato come se fossi un dono di inestimabile valore.

Quando si è realmente bambini, da piccini insomma, non si riescono a percepire fino in fondo le differenze. Nel momento del divertimento, è vero, ci sono i maschi e ci sono le femmine, c’è chi preferisce il calcio – di solito i maschi – e c’è chi gioca a fare la tata o la maestra – spesso le femmine. Tuttavia una volta tolto il grembiule, a seconda dei casi celeste o rosa, le differenze non sono poi così ovvie. 

Per me, però, non è mai stato mai stato così, anche negli attimi di svago ero “insolito”: non ambivo a diventare un bomber né tantomeno riuscivo ad immaginarmi come insegnante nelle scuole. Giocavo a nascondino, oppure a fare l’organizzatore di matrimoni (parlare negli anni ‘90 di “wedding planner” era quasi un’eresia), o ancora il cuoco. Mi trovavo bene sia con i bambini che con le bambine, non sentivo la necessità di scegliere di appartenere a un gruppetto piuttosto che a un altro, mi adattavo facilmente alle diverse situazioni. 

Venivo invitato spesso a casa degli altri compagni d’asilo, e qualche anno dopo, delle elementari. Ero felice di andare dai miei amichetti – chi non lo sarebbe stato? –  e mi sentivo davvero come “uno di loro”, “uno di noi”, un altro elemento della nostra fenomenale comitiva sempre a caccia di avventure, anche se solo con l’immaginazione. Tutto andava liscio, fino a quando non sentivo immancabilmente chiedere da uno dei miei inseparabili compagni:

«oggi nel pomeriggio può venire a casa da noi Matteo, quel mio amico un po’ scurino?»

Restavo immobile, davanti ai cancelli della scuola. Non in attesa della risposta del genitore ma per quella specifica frase. In quel preciso momento il “noi” non esisteva più, perlomeno nei miei pensieri.

Perché quel bisogno di rimarcare quell’aspetto? Perché non ha detto: «quel mio amico bravo a nuoto?» o «quel mio amico molto simpatico»? Perché voleva definirmi attraverso il colore della mia pelle? All’epoca non riuscivo né a comprenderlo e né ad accettarlo. Tutto questo era un grande motivo di vergogna, di distacco, un distacco che fino a qualche istante prima non c’era e non era nemmeno contemplato. Per carità, in fondo era una sciocchezza! A casa ci si divertiva uguale a sfidarci con le macchinine o a rievocare la preistoria con i dinosauri ma io mi sentivo come se tutti i miei sforzi a voler cancellare quella differenza, legata solo ed esclusivamente al tipo di carnagione, non avessero avuto esito positivo.

Mi vergognavo. Mi vergognavo per non aver dei tratti somatici uguali a quelli dei miei compagni; mi vergognavo di avere i capelli ricci e crespi – io che li volevo lisci, col ciuffo, sempre pettinati, come quelli delle pop star che invidiavamo; mi vergognavo anche ai tempi del Liceo a salire sull’autobus quando i bulletti (eh già, anche a quell’epoca esistevano i bulli, solo che se ne parlava molto meno rispetto ad oggi) mi additavano con epiteti irripetibili, quando mi minacciavano solo perché dovevano in qualche modo “punirmi” per essere «ne**o e fr***o». Quando mi schernivano così, davanti a degli sconosciuti, restavo inerme. Mi vergognavo. 

Ma di cosa? Mi verrebbe da chiedere ora che ho superato la soglia dei 30 anni. Ora che riesco a concepire quelle differenze come un pregio e non come una menomazione. Certo, non è stato un percorso facile: il costante bisogno dell’approvazione altrui, il doversi comportare come gli altri avrebbero voluto che io facessi, o più esattamente, come credevo che gli altri avessero voluto che facessi, è stato estenuante. Anni e anni a cercare di nascondere tutte le mie differenze, a voler a tutti i costi conformarmi. Che noia! Mi verrebbe da dire a ripensarci.

Allo stesso tempo, però, mi vergognavo anche di non conoscere il portoghese, di non saper giocare a calcio, di non ballare la Samba, di non avere un fisico scolpito, tutti cliché che uno nativo brasiliano dovrebbe avere nel proprio DNA. E io, di questo DNA, ho solo il fatto di essere «un po’ scurino».

Solo in famiglia non avevo alcun disagio. Sarà perché quel nome che mi è stato dato l’ho sentito come veramente mio. “Matteo” in ebraico significa “dono di Dio” ed è stato veramente così! I miei genitori mi hanno sempre trattato come se fossi un dono di inestimabile valore: l’amore, la premura, la solidarietà non sono mai mancati. Così come da parte degli zii, dei nonni, dei cugini, verso i quali provo immensa gratitudine e affetto.

Nel paese dove abitiamo in Toscana, la stessa strada dei miei genitori è stata intrapresa da altre tre famiglie. Sono orgoglioso che i miei siano stati d’esempio e grazie a queste scelte ho avuto la fortuna di essere cresciuto con un altro coetaneo adottato in Brasile, poi c’è stato l’arrivo di Virginia, Marco e infine Alessandro, tutti figli delle altre famiglie, ma in qualche modo anche miei fratelli.

C’è solo un aneddoto spiacevole che fa ancora infuriare mia mamma: dopo pochi mesi dal mio arrivo in Italia, visitammo una zia di secondo grado a Milano. Una volta entrati in casa sua questa disse: «Carino sì, bel bambino. Ma non è tuo figlio, non puoi considerarlo tale». Per mia madre fu uno strazio, certo che ero suo figlio! Certo che sono suo figlio! Da quel momento questa “sciura” non ha fatto più parte della nostra vita e ad oggi rimane solo un curioso e divertente ricordo. Ma forse non sarà stata nemmeno l’unica ad averlo pensato, chissà quanti compaesani avranno bisbigliato e spettegolato alle nostre spalle.

Scrivendo questo racconto, ho voluto riflettere attentamente su quali parti svelare della mia esperienza da “ragazzo” adottato. Di incomprensioni, di sofferenze, di ostacoli, ne abbiamo avuti tutti, chi più e chi meno ma queste sono cose che accomunano tutti i figli. Noi, però, abbiamo un valore aggiunto che rimarco con fierezza: l’immensa fortuna di essere stati scelti, voluti, desiderati da una coppia con un cuore immenso. Ed è proprio grazie all’esempio di babbo e mamma, alla loro tenacia, alla loro educazione, alla loro morigeratezza se sono cresciuto come una persona rispettabile, seria e amichevole. 

Oggi sono in grado di capire che in fondo quelle tanto odiate differenze, in realtà, sono la parte più bella di ciascuno di noi. Sia che si tratti del colore della pelle, degli occhi, dei capelli, dell’altezza, della corporatura, del carattere. Non esistono copie, tutt’al più somiglianze. 

Adesso con questa consapevolezza sorrido e sorrido anche ripensando a quando l’altro giorno un mio caro amico mi ha detto che, dopo la mia visita di qualche settimana fa, incrociando la vicina di casa questa gli ha chiesto: «passa anche oggi quel ragazzo un po’ scurino?» E lui le ha risposto: «Sì, passa anche oggi, Matteo è un amico a cui voglio bene che mi sta aiutando moltissimo in questo periodo».

A distanza di decenni sono fiero di essere «un po’ scurino».

Matteo- collaboratore esterno.

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