A quasi due anni dall’uscita di Becoming, l’autobiografia di Michelle Obama, Netflix ha rilasciato uno speciale incentrato sul tour che la prima black first lady of America ha fatto per promuovere il suo libro.

Il documentario ripercorre l’infanzia di Michelle partendo dal South Side di Chicago, un vero e proprio quartiere-ghetto dove, già dagli anni Sessanta i bianchi si erano da tempo allontanati per vivere verso aree più residenziali. In questo ambiente così complicato, segnato anche da episodi di violenza, la piccola Michelle Robins trova proprio nella comunità del South Side il terreno fertile per far crescere le sue speranze e aspirazioni. 

A giocare un ruolo centrale nel suo percorso di crescita ci sono i genitori: Frasier, morto di Sclerosi Multipla e Marian, la colonna portante di Michelle che l’ha accompagnata anche durante gli anni alla Casa Bianca. Poi c’è Craig, il fratello maggiore, sempre intento a proteggerla e a prenderla bonariamente in giro. Le foto, così come il ritorno alla casa d’infanzia rendono la visione del film scorrevole e a tratti commuovente. 

Durante il tour – a cui sono intervenuti personaggi di alto profilo come: Oprah, Stephen Colbert, Barack Obama, Reese Whitterspoon e Gayle King – si è creata un’atmosfera incredibile che la ex first lady ha definito come una vera e propria “danza emotiva e sociologica”. Gli spettatori hanno la possibilità di vedere Michelle a contatto diretto con ragazzi e ragazze, donne, uomini più giovani e meno giovani provenienti soprattutto da comunità svantaggiate. Non a caso, nel libro così come nel documentario, il racconto della vita di Michelle è caratterizzato da una certa dose di universalità ed ha un obiettivo aspirazionale evidente: la sua storia è una parabola che deve ispirare le persone a portare avanti i propri sogni nonostante le difficoltà e le inuguaglianze del mondo.

Nell’ascoltare le numerose voci che popolano il documentario, mi sono tornate in mente le parole di Shonda Rymes riguardo la responsabilità di essere i first only different e tutte le pressioni a cui sono sottoposti coloro che sono chiamati a rompere il glass ceilieng per primi. Perché se da un lato essere i primi “diversi” può conferire gli onori della storia, dall’altro tutto ciò può intimidire perché si ha la consapevolezza che ad altre persone prima di noi è stata negata la stessa opportunità.

«Questa è la storia di questo paese, una storia che mi ha portato qui su questo palco questa sera, questa è una storia di generazioni di persone che hanno sofferto le frustate della prigionia, la vergogna della servitù, il dolore della segregazione ma che hanno continuato a sforzarsi e sperare e fare quello che era necessario fare, così che oggi, io mi possa svegliare ogni mattina in una casa che è stata costruita dagli schiavi!» 

Michelle Obama
Tornando a Michelle Obama, è evidente che sia nata per fare public speaking.

È letteralmente un animale da palcoscenico, sempre con i tempi giusti, abile a capire quando deve fare una battuta e quando invece deve essere seria, conosce l’esatto momento in cui deve mostrarsi umile e quando invece deve caricarti con la sua braggadociousness tutta afroamericana. Questa cosa mi era chiara da tempo ma mi è stata confermata sentendola parlare, vedendola con quei vestiti che farebbero storcere il naso a qualsiasi esperto di moda. Perché si, anche Michelle Obama ci ricorda l’importanza degli abiti e della loro valenza semiotica. Chi può dimenticare il vestito giallo e gli stivali glitterati di Balenciaga? Nessuno! Sono un’immagine indelebile che coincidono con la volontà di re-branding di Michelle dopo anni sotto la lente di ingrandimento del paese. Adesso è finalmente libera di mostrarsi più audace e spontanea.

Sono onesta però, una volta che ho spento la tv e superata l’onda di emozioni che mi ha travolto durante l’ora e mezza del documentario, mi sono fermata a riflettere, guardando il quadro d’insieme. Concordo in linea generale sull’idea che sia il libro che il documentario possano essere inseriti nel segno del nuovo femminismo intersezionale che negli ultimi anni sta assumendo una sempre maggiore centralità nel dibattito pubblico. Tuttavia è bene sottolineare che il tipo di femminismo che si promuove in Becoming è quello tipicamente americano: individualista e liberale dove i risultati della self made woman Michelle fanno da corollario ad un immaginario di donne il cui duro lavoro viene ripagato soprattutto in termini economici.

Forse non è questo il problema, allora cos’è questa senso di sconforto? Ho ripreso il libro, ho riletto alcune parti e mi sono ricordata di aver provato la stessa sensazione quando l’anno scorso ero arrivata all’ultima pagina. Il punto è questo: è vero, questo viaggio incredibile mi ha motivato, mi ha entusiasmato e mi ha reso propositiva. Mi dico che voglio tirare fuori anche io il mio best self, come diceva Oprah Winfrey nel suo show! Non era questo l’obiettivo principale? Missione Compiuta! 

Sono brava abbastanza? Si chiede ripetutamente Michelle e la risposta dall’esterno non può che essere affermativa. Ma quando la domanda la faccio a me stessa qual è la risposta? 

Ci penso troppo a lungo, rifletto sull’inganno della parola “aspirazione” e come sebbene sia orientata ad un accrescimento personale in realtà questa è connessa all’idea stessa di una mancanza, uno stato che si deve raggiungere. Non si è mai realmente abbastanza, c’è sempre un livello più alto da raggiungere e tutto questo ha il rischio di renderci irrimediabilmente insoddisfatti

Forse il problema è che sono troppo cinica per questo genere di prodotti che tutto ad un tratto mi sembrano troppo costruiti, troppo perfetti. Ma la verità è che la drastica fine dell’era Obama, con il suo slancio positivo tutto proteso verso un cambiamento che non è mai effettivamente arrivato, ci ha reso tutti più diffidenti e meno capaci di credere nel nostro potenziale e nella forza della nostra storia. 

Mi dico che forse però è tornato il momento di credere ancora nel cambiamento, accendo la tv, vedo Donald Trump e tutto l’ottimismo di Michelle ha lasciato irrimediabilmente il posto al solito sconforto. 

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