Le verità nascoste delle adozioni interrazziali.

Da dove vieni?
Non lo so precisamente, probabilmente dal Corno d’Africa
E come mai non lo sai?
Sono nata in Italia e sono stata adottata quando avevo 2 mesi
Ah – silenzio – beh i tuoi genitori devono essere delle bravissime persone

Una conversazione che va avanti da 30 anni. Cambiano i protagonisti, le situazioni ma la risposta è sempre la stessa. Per me, che ho da sempre avuto genitori di un colore diverso dal mio, non è mai stato un problema ammettere di essere stata adottata. L’imbarazzo, semmai, lo vivono gli altri – sconosciuti e non – che difficilmente sanno cosa dire e che, già dai primi scambi, proiettano su di me una lunga serie di punti interrogativi e aspettative.
Non faccio fatica ad immaginare ciò che gli passa per la testa in quelle poche frazioni di secondo, anche se non me ne parlano apertamente.
Quello che mi colpisce di più però è la costante attenzione rivolta al gran cuore dei miei genitori. Nessuno che mi abbia mai detto: «però sono stati proprio fortunati i tuoi ad averti!» No, sono sempre stata io quella messa nella posizione di dover ringraziare per aver scampato un abbandono.
Questa prospettiva tutta incentrata sul “genitore” e mai sul “figlio” è quello che più di sbagliato c’è nella cultura dell’adozione. La visione caritatevole che finisce per identificare i genitori come dei white saviour ha sempre celato una certa posizione razzista ponendo le figure parentali come dei salvatori che eroicamente liberano alcuni selezionati bambini dai pericoli dell’Africa o di altri paesi non Occidentali. Tralasciando gli aspetti più narcisisti connessi a questa scelta, mi sembra importante sottolineare che in questo contesto il framing di riferimento non può che essere quello che assimila l’adozione ad una sorta di dono dei genitori verso i figli. Ma come è noto, il dono implica sempre un gesto di reciprocità. Dunque devo ringraziare per delle decisioni assunte da altri?

Come hanno trattato i tuoi la differenza che c’è tra di voi?
Silenzio… come un elefante nella stanza.

Fin da quando sono piccola mia mamma e mio papà hanno ripetuto, come una sorta di mantra, che mi amavano e lo facevano in modo sincero, lo so per certo. Ricordo che mia nonna, una volta, così dal nulla, mentre parlavamo, mi disse: «ma lo sai che i tuoi genitori ti vogliono tanto bene?» Mi misi a piangere, non potevo fare altrimenti. Avevo 5 anni e questa ripetizione quasi ossessiva mi suonava più che sinistra; mi si stava richiedendo qualcosa in cambio per tanto amore? Come potevo ripagarli? Un perenne stato di oppressione mi pervadeva. Una sensazione che mi porto ancora dietro nei riguardi della mia famiglia.
Il senso di colpa e il gran cuore dei miei genitori.
I figli adottivi sono difficilmente classificabili. Viviamo in una zona liminale che divide il “noi” dall’essere “altro”, il conosciuto dall’ignoto. Il figlio adottato è portatore di questa dualità che, sin dall’inizio, diventa uno degli aspetti fondamentali della sua essenza. Io sono una donna nera che ha passato gran parte della sua vita in white spaces e questo ha avuto degli effetti negativi su di me, degli effetti che i miei stessi genitori hanno sottovalutato.
Con una certa ingenuità, per loro, bastava pensare che al mondo “siamo tutti uguali” e che non faceva differenza il colore della mia pelle. Ma noi uguali non lo siamo mai stati e il mondo in cui vivevo non faceva altro che ricordarmelo. Ad ogni commento sui miei capelli ingestibili, ad ogni battuta sul colore della mia pelle – fortunatamente non troppo scura -, ad ogni: ne**a! Urlato da simpatici passanti per la strada.
Così per sopravvivere ho deciso che la scelta migliore fosse lasciar correre e reprimere quel dolore connesso ad una perdita. Oggi però, più che mai, reclamo i miei spazi, la mia differenza, il mio ignoto, i miei punti interrogativi e quel buio che non so ancora ben identificare.

Dobbiamo sempre essere grati, dobbiamo rispettare le nostre origini.
Intendi le tue origini cilene?
No no, i miei genitori italiani!

Secondo i dati, l’Italia è il secondo paese al mondo per numero di adozioni e solo nel 2018, i minori stranieri per i quali è stata rilasciata l’autorizzazione all’ingresso nel nostro paese a scopi adottivi sono stati 1.394.
Anche se siamo tanti, sinceramente ho trovato sempre un po’ desolante il confronto con gli altri figli adottati. Tutti, dal primo all’ultimo, erano sempre troppo intenti a glorificare i genitori adottivi, narrati come dei veri e proprio cavalieri senza macchia. È come se anche noi fossimo inevitabilmente finiti ad interiorizzare tutto quello che c’è di sbagliato nella cultura dell’adozione.
Arrivata alla mia età ammetto che i miei genitori, nonostante le migliori intenzioni, hanno sbagliato tanto con me e hanno avuto pecche imperdonabili che alla fine però, inevitabilmente, hanno concorso a definire quello che sono. A mente fredda, mi rendo conto che parte di quegli errori sono dovuti anche ad uno scarso sistema assistenziale; mia mamma e mio papà non sono mai stati aiutati a comprendere quali sono le esigenze di una bambina e di una ragazza nera. Incredibilmente non sono mai stati vincolati a fare un percorso di psicoterapia con me e non sono neanche stati obbligati ad avere il supporto di altri afrodiscendenti.

Ma ringrazia che sei stata adottata! Sai cosa vuol dire avere un genitore africano? Io pregavo tutti i giorni di essere adottata.

Negli ultimi anni ho fatto di tutto per riappropriami degli aspetti che mi sono stati negati dall’adozione. Ho avuto contatti con donne e uomini afrodiscendenti e la cosa che più mi ha colpito è la naturalità dei nostri scambi e l’appagante sensazione di sentirmi finalmente riconosciuta. È chiaro che io sono “altra” anche in queste situazioni: non ho mai avuto un confronto con genitori africani, non ho mai mangiato riso Jollof (di cui ho solo tanto letto) e non ho mai imparato ad intrecciare i miei capelli.
Passo, passo però sto tentando di colmare i miei vuoti. La nuova letteratura africana e YouTube hanno avuto un ruolo centrale in questa mia seconda nascita ed in un certo senso penso che se ci fosse stato internet quando ero piccola il lavoro dei miei genitori sarebbe stato certamente più semplice. Probabilmente si sarebbero fatti più domande e avrebbero problematizzato molto di più il loro modo di agire e il loro razzismo interiorizzato.
A questo punto la domanda sorge spontanea: qual è la soluzione? Personalmente non sono contraria alle adozioni interrazziali ma penso che il sistema debba necessariamente essere ripensato ponendo al centro di tutto il benessere non solo fisico ma anche mentale del bambino. Riprendendo l’invito fatto da Esperance Hakuzwimana Ripanti all’Assedio, sono convinta che parte della soluzione al problema siamo proprio noi figli adottati. Lo so, un altro fardello sulle nostre spalle in un mondo che stenta a riconoscere i nostri bisogni.
Allo stesso tempo però sento che è arrivato il momento che i riflettori del dibattito vengano puntati su di noi e che le nostre storie di quotidiano malessere escano allo scoperto, senza alcun timore reverenziale, per il nostro bene e quello delle future generazioni di figli adottati. Perché è vero che i nostri genitori hanno avuto un gran cuore, ma noi dobbiamo prima di tutto imparare a salvaguardare il nostro.

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